Che cos'è il bluewashing? Come possiamo riconoscerlo?

Il termine greenwashing fa parte della nostra quotidianità. Ma che cos’è il bluewashing? Siamo in grado di non cadere nella trappola?

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Scritto da
Valentina Lovat, IOC-UNESCO
Data di pubblicazione
26 July 2022
Tempo di lettura
9 minuti

Il termine greenwashing ormai fa parte della nostra quotidianità, ma cosa succede all’oceano? Sappiamo davvero che cos’è il greenwashing? E il bluewashing? E siamo in grado di riconoscerli e stare alla larga?

Si sente molto parlare di greenwashing, letteralmente «lavarsi la coscienza facendo qualcosa di verde». Con questo termine anglosassone si definisce il cosiddetto “ecologismo o ambientalismo di facciata”.
Il termine greenwashing deriva dall’espressione figurativa whitewashing, utilizzata comunemente per indicare un tentativo di occultare la verità per proteggere o migliorare la reputazione di enti, aziende, prodotti.

Quindi, che cos’è il bluewashing?

Per il bluewashing vale lo stesso discorso del greenwashing ma interessa tutte le parti “blu” del pianeta e gli organismi che le abitano: oceano, mari, fiumi, laghi.

Un oceano sempre più caldo e acido, perdita di biodiversità e di conseguenza eventi atmosferici più estremi come siccità, incendi, alluvioni e uragani, sono i primi segnali dell’avanzamento della crisi climatica. Non abbiamo molto tempo per agire. Per questo, come ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite ad inizio 2022, non possiamo permetterci di avere azioni di greenwashing in atto.

Il mondo è in corsa contro il tempo. Non possiamo permetterci di fare passi indietro, di fare passi falsi o di fare qualsiasi forma di greenwashing.
Dobbiamo garantire che gli impegni per l’azzeramento delle emissioni siano ambiziosi e credibili e che siano in linea con i più alti standard di integrità e trasparenza ambientale. Devono inoltre essere attuabili e tenere conto delle diverse circostanze.

Antonio Guterres, United Nations Secretary General

Dal greenwashing al bluewashing: una definizione delle strategie più utilizzate

Il greenwashing e il bluewashing sono strategie di marketing e comunicazione messe in atto da aziende, enti, organizzazioni e singoli individui per far passare un’immagine di sé attenta all’ambiente e sostenibile. In realtà, queste strategie cercano solo di spostare l’attenzione del consumatore dall’impatto negativo che l’ente coinvolto genera sull’ambiente.

Una strategia atta ad aumentare le vendite di un prodotto o migliorare la propria reputazione per acquisire nuovi clienti, aumentare il fatturato o rendersi leader in un determinato settore, senza però impegnarsi davvero per risolvere i problemi e rendere virtuoso il proprio operato.

In realtà, la comunicazione che viene portata avanti spesso omette informazioni importanti, che svelerebbero il vero impatto dell’azienda o dell’ente sull’ambiente. Termini generici e poco definiti ingannano i clienti facendo credere che l’azienda stia facendo più di quanto non faccia in realtà.

Con il termine greenwashing, ci si riferisce ad azioni volte più alla parte “verde” del pianeta: boschi, foreste e spazi green delle nostre città. Ma noi sappiamo che la stessa attenzione la merita anche il “blue” perché il 70% della superficie del pianeta è coperta da acqua, perché l’oceano è il più grande alleato che abbiamo nella mitigazione della crisi climatica e perché la nostra vita dipende dal blu. Anche l’oceano, le risorse idriche e la biodiversità marina non sono estranei a queste pratiche commerciali di facciata. Ed è qui che nasce il bluewashing.

Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 14_Decennio del Mare

Il termine bluewashing non si interessa solo all’oceano, “blu” deriva anche dal colore del logo delle Nazioni Unite. Molte aziende, organizzazioni e enti di vario titolo cercano di associare il proprio nome alle Nazioni Unite (ONU) al solo scopo di pubblicizzare le proprie attività senza però davvero intraprendere azioni a supporto dei programmi ONU.

Un esempio è l’utilizzo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 come copertura per lavorare sotto l’egida dei principi formulati dall’ONU, ma senza operare e collaborare effettivamente in quella direzione.

È molto più semplice ed economicamente vantaggioso avviare una campagna di comunicazione e di marketing rispetto a rivedere tutta la strategia e le attività per includere buone pratiche all’interno del lavoro quotidiano.

Come riconoscere il bluewashing?

Con l’aumento dell’interesse delle persone e dei giovani verso le tematiche ambientali e sociali, ci sono sempre più enti che cercano di cavalcare l’onda per ingrandire la propria community e i propri clienti utilizzando tecniche sempre diverse e per questo sempre più difficili da riconoscere, soprattutto per chi non tratta quotidianamente questi argomenti.

Il bluewashing, va oltre il singolo prodotto, si può ritrovare anche nel vero e proprio operato e nella strategia attuata dall’azienda, ente, organizzazione o persona. Trasparenza, soprattutto, e coerenza a lungo termine sono i primi elementi che possiamo utilizzare per valutare l’operato di un determinato ente, azienda o organizzazione.

Alcuni punti per riconoscere in modo semplice alcune delle più comuni azioni di bluewashing:

1. Comunicazione accattivante e generica

La comunicazione è generica e non approfondisce i dettagli perché eseguita in assenza di un impegno concreto e maturo da parte dell’ente. Spesso vengono utilizzati termini come “sostenibile”, “ocean-friendly”, “green”, “basso impatto”, “zero emission”, “100% materiale riciclato”, “carbon neutral” senza riportare tutte le informazioni necessarie per poter valutare il vero impatto ambientale del prodotto.

In aggiunta, per attrarre il cliente e promuovere prodotti “sostenibili” spesso vengono utilizzati colori che non rispecchiano quelli soliti dell’azienda ma che richiamano la natura. Il beige, il verde e il blu sono i colori preferiti per le campagne di sostenibilità ambientale. In questo modo, il prodotto sembra avere un impatto positivo sull’ambiente, ma solo all’apparenza.

Per questo è importante non farsi ammaliare da una scritta o da una grafica ma bisogna andare a fondo. Il modo migliore per capire se un marchio è davvero responsabile dal punto di vista ambientale e sociale è cercare le informazioni nascoste in un prodotto cosiddetto ecologico. Sebbene un’azienda possa indicare l’uso di materiali riciclati o organici in un prodotto, potrebbe non rivelare come o dove il prodotto è stato realizzato o come sono stati reperiti i materiali.

Ricercare prove e dati: i numeri sono sempre più affidabili delle parole. Leggere le etichette, il sito web, cercare articoli e fare domande sulla tematica di cui parlano è fondamentale per capire quanto ne sanno, quanto si stanno impegnando e quanto sono davvero interessati all’argomento che stanno comunicando.

Un esercizio che possiamo fare? Provare a scegliere una crema solare a basso impatto sul mare da utilizzare questa estate.

Che cos'è il bluewashing_Decennio del Mare
Photo by OCG Saving The Ocean on Unsplash

2. È un’iniziativa a breve termine

La temporalità dell’azione è importante, per essere concreta deve esserci un piano a lungo termine.

Se l’iniziativa, progetto o prodotto, è parte di un’edizione speciale, esclusiva, una tantum o a breve termine deve far suonare un campanello d’allarme. Non è raro infatti che vengano attivate campagne limitate solo ad una linea o ad un determinato arco temporale, come per esempio alla Giornata Mondiale dell’Oceano, dell’Ambiente o del Pianeta.

Altri esempi possono essere campagne di pulizie delle spiagge supportate da aziende non proprio attente all’ambiente. Di sicuro le pulizie delle spiagge hanno un impatto positivo sull’ambiente e, se fatte nel modo corretto, sono un ottimo strumento per fare educazione ambientale e per fornire dati a università e centri di ricerca. Ma se la pulizia viene svolta e promossa dall’ente solo a scopo comunicativo, resta un’attività fine a sé stessa per ripulire la reputazione e l’immagine del marchio.

Non facciamoci ingannare da una pubblicità, cerchiamo di sostenere chi si impegna quotidianamente per migliorare il proprio operato e l’ambiente in cui tutti noi viviamo.
Solo informandoci possiamo essere sicuri di investire nei marchi che adottano un approccio olistico, trovando nuovi modelli di business che integrino la sostenibilità al centro, invece di concentrarsi solo su un prodotto, una collezione o iniziativa specifica.

3. Non coinvolge istituzioni, centri di ricerca o enti esperti del settore

Spesso è un’iniziativa portata avanti da un’azienda e una sola organizzazione, senza coinvolgere le istituzioni o enti che lavorano quotidianamente per la tematica. Capire chi sta dietro la campagna e quali sono gli scopi finali dell’iniziativa è un passo in più per inquadrare l’azione all’interno di una strategia più ampia.

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©Matt Curnock – Ocean Image Bank

4. Privatizza un bene comune

Sulla scia di progetti internazionali come la UN Decade of Ecosystem Restoration, molti enti, organizzazioni e aziende hanno attivato o stanno per avviare progetti di rigenerazione e ripristino di ecosistemi per supportare o accelerare il recupero di un habitat o ecosistema specifico in seguito a danni, degrado o distruzione.
Questi progetti riguardano i boschi e le foreste ma anche il mare, attraverso iniziative di ripristino di scogliere coralline, foreste di mangrovie, Cystoseira (ora Ericaria) o praterie di Posidonia. E fin qui, tutto regolare.

Questi progetti però richiedono molta cautela, attenzione e conoscenza del settore. Posizionare una specie sbagliata può provocare più danni che benefici all’ambiente. Allo stesso modo, attuare un progetto di rigenerazione senza eradicare il problema che ha portato al danneggiamento dell’ecosistema è un investimento a doppia perdita: capitale e ambientale.
Perché i progetti di rigenerazione, riforestazione e ripristino abbiano successo è necessario un lavoro di totale collaborazione con università, enti di ricerca, istituzioni, aziende e comunità locali.

Per questo, è fondamentale – prima di comprare o adottare una pianta o un corallo, per esempio – informarsi sulla natura e sulle premesse dell’intero progetto che il nostro acquisto andrebbe a sostenere.

Cosa possiamo fare noi?

Ricordiamo che il greenwashing non è necessariamente legato all’attività di un’azienda, ma può essere portato avanti anche da persone, organizzazioni, fondazioni e enti pubblici più o meno consciamente.
Attualmente la sostenibilità è un trend in forte crescita e per farsi trovare aggiornati e non rischiare di sostenere azioni di greenwashing e bluewashing bisogna investire tempo, informarsi e studiare molto.

Prima di acquistare un prodotto o supportare un ente o un’iniziativa è importante informarsi e fare domande. Se l’ente è trasparente e non ha nulla da nascondere sarà disponibile a fornire tutte le richieste di cui avete bisogno e rispondere a dubbi e curiosità.

Come ha riportato la Specialista di Programma di IOC-UNESCO Francesca Santoro al Festival Green&Blue di la Repubblica, non è facile. L’importante è far capire agli enti che i progetti vanno creati su valori comuni. Non è semplicemente uno scambio di denaro tra profit e no-profit, cliente e azienda, o tra profit e ricerca. Le aziende possono cambiare modo di produrre e comunicare meglio le loro attività.

Non è facile trovare realtà che lavorano con la missione comune di contribuire al benessere ambientale senza avere come scopo la ricerca di un vantaggio di mercato e commerciale. La responsabilità è di ognuno di noi. Anche nella scelta di chi supportare.

Fonti:

https://news.un.org/en/story/2022/04/1117062

https://www.theguardian.com/sustainable-business/2016/aug/20/greenwashing-environmentalism-lies-companies

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0195925520301529

https://www.decadeonrestoration.org